UNA LECCIA DA RECORD
12 giugno 1985: mi ritiro, trascinandomi stancamente, da una lunga ed inutile giornata di pesca a traina; tanto per capirci, una di quelle che ti fanno desiderare di scaraventare a mare lenze ed ammennicoli vari per darsi, magari, alla raccolta dei francobolli. In questo mare morto ho perduto, tra l’altro, arroccate agli scogli del bassofondo, le diecimila lire di un Rapala 9 nuovo nuovo nell’inutile tentativo di catturare qualche spigoletta randagia, e non è che la cosa non abbia contribuito al mio malumore.
Mentre mi accingo a doppiare la Punta d’Izzo, abbocca al cucchiaino, ed è una preda inconsueta in questa stagione, un’aguglia di discreta misura. Sono quasi tentato di ridarle la libertà, poi decido che forse vale la pena di congelarla nel freezer domestico per utilizzarla come esca in tempi migliori.
Poco più oltre una seconda aguglia, più piccola, va a far compagnia alla prima e la sua cattura conclude una giornata di pesca tutta da dimenticare.
23 luglio 1985: già da alcuni giorni al Club Nautico di Augusta si vocifera di grosse ricciole in mangianza lungo tutta la costa rocciosa da Augusta a Brucoli. Non che qualcuno dei nostri ne abbia catturate, ma c’è stato qualche violento scippo rimasto senza spiegazione e la cosa ha fatto scalpore. Così, quando improvvisamente mi sovviene delle due aguglie surgelate da oltre un mese, la decisione di tentare una sortita è immediata.
Arrivo nell’androne del Club intorno alle 16.00 e cerco di sgattaiolare inosservato davanti al solito gruppetto dei patiti del “cinchino” intenti a disputare l’ennesima partita della giornata: vorrei eludere ammiccamenti ed ironiche allusioni ai miei tentativi di caccia grossa, ma l’esca ben avvolta nel foglio di alluminio non sfugge all’occhio attento dell’amico Alfredo Bellistri che si informa premuroso (e sfottente) se ho deciso di “portare a spasso l’aguglia”. E’ un bravo ragazzo, appassionato ed esperto pescatore a traina, e la sua bonaria e scherzosa ironia è senza malizia.
In questi giorni il mare è stato piatto come l’olio, ma oggi si è levato un discreto vento di scirocco, e le crestine bianche sul mare del Golfo Xifonio non fanno certo prevedere una navigazione tranquilla quando metto in moto il fuoribordo Mercury e mollo l’ormeggio. Mentre dirigo verso la Punta d’Izzo, armo sul portacanna l’attrezzatura nuova: canna da 30 libbre, mulinello rotante 4/0 con 300 metri di filo di nylon 0,60 di cui un centinaio di metri a mare appesantiti da un piombo a spirale da 400 grammi e, in fondo, scodinzolante come fosse viva, una delle aguglie del 12 giugno ben innescata ad arte.
Il tutto ha, invero, un aspetto un po’ pretenzioso installato sulla mia lancetta di plastica di soli 4 metri, ma tant’è, per una volta mi sono deciso a mettere da parte la consueta e fida lenza a mano.
Al traverso di Punta d’Izzo mi accorgo che sono in corso le esercitazioni al poligono di tiro e, con lo scirocco in aumento, la prospettiva di una lunga deviazione per evitare di farmi impallinare non mi sorride affatto: ho solo l’alternativa di cambiare programma e dirigere a Sud verso la diga del porto, oppure rinunciare. Sto quasi per invertire la rotta quando realizzo che la sparatoria è cessata e che i “guerrieri” stanno imbarcando sugli autocarri la loro mercanzia. E allora decido di andare avanti, almeno fino al faro di Capo Santa Croce anche perché so che, doppiata Punta d’Izzo, cesserà il tormento della maretta in prua.
Intanto si sono fatte le 17.00 e, malgrado il sole sia ancora alto sull’orizzonte, il cielo è velato ed il mare si è incupito perché lo scirocco non accenna a calare. Sono esattamente davanti al faro quando avverto, improvviso ed irreale, il gracidìo del mulinello, dapprima breve … una pausa …, poi un sibilo prolungato per un tempo che a me sembra infinito. Cerco di restare calmo, metto la barra al centro, il motore al minimo e la prua al mare per allontanarmi dalla secca, sperando che non si tratti del solito maledetto sacco di plastica.
No, non è un sacco di plastica: ho afferrato saldamente in mano la canna e, mentre cerco freneticamente di riordinare le idee, avverto distintamente le strattonate e la lunga fuga del pesce. Stringo cautamente la frizione del mulinello e comincio, metro dopo metro, a recuperare la lenza infinitamente lunga. Il tempo trascorre lentissimo, sono in un bagno di sudore per l’adrenalina che mi scorre nelle vene, ma ora mi accorgo che le fughe del pesce si sono fatte più brevi e meno violente, tuttavia l’animale si sposta da un lato all’altro della barca e mi costringe a continue manovre con la barra del fuoribordo per tenere la lenza lontana dall’elica, ma intorno a me il mare è vuoto di barche e ciò mi consente di combattere con maggiore tranquillità. Un rapido sguardo all’orologio per rendermi conto che sono trascorsi oltre venti minuti dal momento dell’incoccio mentre il pesce è ancora invisibile sotto la barca e gira in tondo, quasi fosse indeciso sul da farsi. Ma ora sento che è stanco, e quando recupero più decisamente la lenza sul mulinello comincia a risalire, docile e senza fretta. Quando riesco a sfilare il piombo dalla lenza, finalmente ne vedo l’argentea e massiccia mole che risale, coricata sul fianco, maestosa e vibrante, dal fondo del mare.
E’ una splendida leccia, di oltre venti chili, record di traina (a quel tempo! N.d.a.) del Club Nautico di Augusta.
Dopo un’ultima, violenta fuga, giunge a tiro di raffio, ed è già morta di stanchezza e di paura.
25 luglio 1985: questa storia ha un seguito, e, come tutte le storie che si rispettano, una sua morale perché due giorni dopo il copione si ripete esattamente, punto per punto, con la seconda aguglia come esca. Ora, al momento dell’incoccio però, mi sento freddo e determinato, i miei gesti nel recupero del pesce – che dalle reazioni intuisco ancora più grosso del primo – sono meno istintivi, più meditati e sicuri. Tanto sicuri che, allorquando mi accingo a sfilare il piombo dalla lenza, trascuro di allentare la frizione del mulinello. E’ un attimo: quasi avesse intuito l’errore e volesse punire la mia presunzione ed il mio peccato d’orgoglio, la leccia meravigliosa che già intravvedo balenare d’argento sotto la barca scatena, improvvisa, tutta la forza della sua mole. Sento la potenza dei suoi muscoli piegare ad arco la canna che si staglia contro il sole, tendere la lenza come una corda vibrante,… spezzarla.
La vedo sprofondare per sempre nel blu del suo mare.
Ugo Passanisi
P.S. La mia leccia, comunque, servì da base per una cena luculliana, cucinata a dovere da “Donna Ina”, per tutti gli impiegati della “Banca Popolare di Augusta” (non è così, signor Presidente Pippo Caramagno?)
E bravo il sig. Passanisi!!!
RispondiEliminaE' il nostro Hemingway dell'Unitre di Augusta.Sta quasi nascendo un feeling telematico tra lei e me, è così piacevole leggerla che quasi giornalmente ho la curiosità di controllare sul blog se c'è qualcosa di nuovo da leggere e quindi da commentare,certa che saranno opinioni positive perchè il suo stile mi piace. Continui così io ci sarò. Un caro saluto
Tania Tudisco
Io sto sempre collegata ad Internet su questo sito, ma stavolta Tania mi ha preceduta.
RispondiEliminaRimango stupita dell'ecletticità del signor Passanisi. Le sue esperienze riguardano il mare, le guerre, la famiglia e quant'altro.
Complimenti, sempre così.
A più Tardi,
Pina Daniele.
ciao, non trovo il nome del pesce da te pescato nell'enciclopedia degli animali! Forse ho sbaglioato io a cercare.
RispondiEliminamaria
Ciao
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